Riportiamo l'articolo che il manifesto del 12 luglio ha dedicato all'esperienza di Terrecomuni Calabria


«Terre comuni, una lotta necessaria in Calabria»
di S. Messinetti. – Cosenza
La proprietà collettiva è l’unica proprietà riconosciuta ancora alle collettività locali. Una proprietà che è pubblica e privata, di tutti e i nessuno. Che proviene alle genti per diritto naturale. Se girassimo fra le montagne delle Marche e dell’Abruzzo, dell’Umbria e della Romagna, della Garfagnana e del Casentino, dal nord al Sud di questa povera Italia, dall’arco alpino ligure-piemontese al veneto-friulano, dai monti del Trentino fino all’Appennino calabro e lucano vedremmo che la gente è orgogliosa di poter fruire liberamente di questa proprietà. Liberamente! Forse perché questa manifesta e caparbia pretesa di libertà sfugge al controllo pubblico delle moderne istituzioni, essa è per questo malvista o volutamente non compresa dai nostri governanti. Non si tratta di un patrimonio di scarso e residuale valore, se l’Istat ha recentemente censito una realtà molto diffusa e variegata delle aree collettive sul territorio nazionale, estesa per più di 1.103.000 ettari di terreno (il 4,4% della Sau e l’8,85% della Sat in Italia. Purtroppo le proprietà collettive vengono vendute e svendute, come sta purtroppo avvenendo in alcuni contesti territoriali, dai Comuni che ne detengono l’amministrazione attraverso una riduttiva e illegittima interpretazione dell’articolo 66 del decreto cosiddetto Salva Italia, che li autorizza a vendere i beni agricoli ed a vocazione agricola di loro proprietà. Tra questi non dovrebbero rientrare, come invece in alcuni casi sta avvenendo, i beni soggetti a uso civico. Che sono e continuano ad essere inalienabili, imprescrittibili e immutabili nella loro destinazione agro-silvo-pastorale. Fin dal 2001 il governo ha individuato nell’alienazione o privatizzazione di beni pubblici una delle misure per contenere il debito in prospettiva della irraggiungibile crescita. Dal canto loro gli enti locali, senza più un euro in cassa, pensano di coprire più di una voce in bilancio vendendo pezzi di demanio o qualche bene pubblico. E possibile decidere la vendita di questi eni comuni come se si trattasse di una merce come un’altra? Senza che coloro che abitano i luoghi ove questi beni si trovano siano chiamati ad esprimersi? E quali conseguenze questo comporta per il benessere dei cittadini?
Elisabetta Della Corte è una sociologa dell’Università della Calabria. Insieme ad altri ha costituito il Comitato Terrecomuni Calabria. «Perché in Calabria più che altrove – spiega a il manifesto – questo processo di appropriazione e mercificazione delle terre comuni, ha comportato uno sconvolgimento ancora più profondo del tessuto urbano, proprio perché nella nostra regione i cosi detti usi civici hanno un fondamento antico. Infatti essi non sono stati inventati da un qualche diritto codificato o disposizione legislativa, ma sono nati già nel Medioevo, come istituzionalizzazione dell’uso e della gestione dei territori attorno alla città, i contadi, da parte delle Universitas che sono comunità che hanno come ragione sociale la buona vita dei suoi membri. Tra l’altro quasi sempre dalle universitas hanno avuto origine i comuni calabresi. Sicché gli usi civici in Calabria andrebbero riguardati come ciò che è sopravvissuto all’opera di modernizzazione dello stato nazionale che ha sostituito il diritto proprietario della terra al suo uso, la legge alla regola, marginalizzando forme di vita inventate collettivamente dalle moltitudini».
Riproporre l’attenzione verso il territorio non ha quindi nulla di nuovo e di originale. Il territorio è definito dallo sguardo che su di esso si posa. Così può essere un campo da seminare, una vigna da curare, quindi percepito come suolo; può essere una distesa di ulivi che degrada verso il blu del mare, quindi percepito come paesaggio; può essere la piazza del borgo, incrocio delle diverse attività, quindi percepito come luogo, può essere quel che resta di un insediamento dell’età classica, quindi percepito come sito archeologico. «Gli usi civici non sono oggi una sorta di romantica difesa di un passato contadino. Essi hanno una straordinaria attualità. Non è un caso infatti che chi, oggi, pone il tema dei beni comuni faccia riferimento proprio agli usi civici come esempio concreto di questa pratica» sottolinea Della Corte.
Proprio su questo giornale un mese fa Alberto Lucarelli, assessore ai Beni comuni del Comune di Napoli, aveva annunciato la raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare contro il cosiddetto decreto Salva Italia del Governo Monti, che prevede, come detto, la dismissione dei beni pubblici appartenenti allo Stato e agli Enti locali. «Occorre organizzare in tutt’Italia una rete di resistenza alla privatizzazione del demanio agricolo, rete che potrebbe formarsi proprio partendo da quella proposta di Lucarelli che va rilanciata e generalizzata» ribadisce Della Corte. Infatti di fronte «alla crisi di sistema che mette in causa le variabili strutturali della crescita economica globale in quanto fattore di produzione di ricchezza» e la «crisi degli equilibri ambientali entro i quali si sono alimentati in sequenza storica la narrazione del progresso e dello viluppo fondati sulla crescita economica illimitata e sulla cosiddetta tecno-scienza», non c’è che ritrovare il rapporto con il territorio. La lotta per le terre comuni in Calabria non riguarda solo le terre demaniali ma va intesa come riappropriazione del territorio da parte delle collettività che le abitano contro che le considera uno spazio geometrico funzionale unicamente all’estrazione di profitto piegando a esso la vita, la quotidianità, i saperi, le passioni degli individui.

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