Una firma contro la svendita di Alberto Lucarelli


Una firma contro la svendita
Il cosiddetto “decreto per la crescita”, di recente approvato dal governo, prevede fra l’altro la dismissione di beni pubblici appartenenti allo Stato e agli Enti Locali. In questo articolo apparso su il manifesto del 16 giugno l’Assessore ai Beni comuni del Comune di Napoli, per opporsi a questa scelta, propone la raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare.
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Con scenari foschi di devastazione costituzionale, ispirati dal mito della governabilità, la partita delle dismissioni del patrimonio pubblico riemerge puntuale come ultima chanche per tentare di pianificare il debito pubblico, o forse meglio per fare nell’immediato un po’ di cassa. Una scelta non innovativa, in quanto rappresenta, per la svendita delle utilities, la risposta alle sollecitazioni della Bce sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, inviate nell’agosto scorso al governo Berlusconi.
Un piano non nuovo, che vede la messa sul mercato, in diverse fasi, degli immobili e delle partecipazioni. La cessione avverrà tramite fondi verso i quali veicolar le dismissioni delle attività del settore pubblico, in particolare al livello regionale e locale.
Una prima evidente contraddizione risiede nella diversa consistenza del patrimonio pubblico fra Stato e Regioni/Enti locali, e sui meccanismi di assegnazione dei ricavi su base territoriale. Il divario è evidente: a fronte di 72 miliardi di immobili posseduti dalla Stato, gli Enti locali dispongono di un patrimonio cinque volte superiore, stimati, a livello di mercato, in 349 miliardi di euro. Il rapporto si inverte, sbilanciato a favore dello Stato, per quanto riguarda le partecipazioni (63 contro 17), con un reddito potenziale, però, più alto per quelle degli Enti locali, a dimostrazione che le utilities territoriali risultano più vantaggiose sul piano della gestione economica e per riciclare denaro sporco da parte delle organizzazioni criminali.
Anche dai flussi delle concessioni emergono rilievi interessanti, quali la forte prevalenza di cassa delle Regioni, con circa un miliardo di euro all’anno contro i 500 milioni dello Stato, prevalentemente provenienti dalle risorse naturali (autostrade, aeroporti e porti rappresentano appena i 2/5 di questa cassaforte).
Oltre a queste considerazioni, che lasciano aperti interrogativi soprattutto sulle modalità della dismissione e sui criteri perequativi di redistribuzione delle risorse, all’interno del Paese, la maggiore perplessità riguarda la privatizzazione delle utilities, che contraddice soprattutto la scelta, espressa da 27 milioni di cittadini con il referendum del giugno 2011 sui servizi pubblici locali. In considerazione del principio che tutti i cittadini sono titolari pro quota di beni pubblici e relativi servizi, le suddette dismissioni mettono in crisi il sistema di garanzia all’accesso a beni e servizi pubblici secondo i parametri costituzionali della solidarietà e dell’eguaglianza, ma anche del ruolo istituzionale e funzionale che la Costituzione attribuisce ai poteri pubblici ai sensi degli articoli 41, 42 e 43 della stessa Costituzione.
Parliamo di svendita di diritti di cittadinanza e di beni comuni, ovvero di beni prevalentemente funzionali a soddisfare fasce di utilità e soprattutto diritti fondamentali.
Tutto ciò è la prova di come il regie proprietario, ancorché pubblico, sia inadeguato a tutelare le variegate forme che a partire da beni e servizi innervano la giustizia sociale. Una scelta tecnica (sic!) e voilà il gioco è fatto! Quando va bene con legge, quando va male con atti di natura amministrativa.
Esigenze, dunque, reali ed urgenti di implementare dal punto di vista giuridico la categoria dei beni comuni, una categoria che si sta progressivamente sviluppando e radicando nei territori e sul piano sociale, la cui affermazione dovrà impedire alienazioni e facili concessioni di beni e servizi che hanno quale loro prius la tutela dei diritti fondamentali.
Ripartire dunque dalla “Commissione Rodotà”, arricchendo quell’esperienza con gli straordinari processi posti in essere dai movimenti, a partire dall’acqua e dalla cultura.
Attrezziamoci però da subito con la redazione di una proposta di iniziativa popolare che impedisca allo Stato e agli enti territoriali la svendita di un patrimonio che lo Stato gestisce non in quanto proprietario ma in quanto tutore di beni di appartenenza collettiva soprattutto nel rispetto dei diritti delle generazioni future.







*(pubblicato da il manifesto del 16 giugno)

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